Responsabilità da ridefinire
Non è ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense dei punitive damages. Questo il principio di diritto espresso in un’attesissima sentenza delle Sezioni unite della Cassazione, con la quale, ieri, la Suprema Corte ha risolto affermativamente la questione concernente il possibile riconoscimento, in Italia, di provvedimenti di condanna risarcitoria a contenuto ultracompensativo emessi da autorità giurisdizionali straniere.
In un volume pubblicato nel 1991 avevo sostenuto che proprio le sentenze straniere che condannano ai danni punitivi dovessero essere riconosciute dal nostro ordinamento. Quali espressione della più ampia categoria delle pene private, mi era parso che tali provvedimenti potessero rappresentare una lente d’indagine privilegiata attraverso la quale osservare un processo di ravvicinamento tra i sistemi appartenenti alle diverse famiglie della tradizione giuridica occidentale, e segnatamente quelli di civil law, cui il nostro ordinamento appartiene, e quelli di common law, nel quale l’istituto è stato elaborato.
La decisione della Cassazione si pone oggi in linea con quella riflessione. All’attenzione della Corte è stato posto, infatti, l’interrogativo sulla compatibilità con i principi fondanti il nostro sistema di una disciplina in forza della quale ilresponsabile di un illecito civile sia condannato alla corresponsione di una somma superiore all’equivalente monetario del pregiudizio patito dal danneggiato. Secondo una consolidata impostazione interpretativa, in passato sostenuta dalla stessa Suprema Corte, ciò appariva incompatibile con la funzione tradizionalmente ascritta alla responsabilità civile, che sarebbe solamente quella di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, mediante il pagamento di una somma di denaro che deve tendere ad eliminare integralmente le conseguenze del danno arrecato. Ammettere, invece, che la condanna possa essere di ammontare (anche di molto) superiore implica l’accettazione del ruolo regolatorio della disciplina dell’illecito extracontrattuale, che, come ci è stato insegnato da Guido Calabresi, dovrebbe esser focalizzata non già sulla posizione della vittima, quanto, e forse primariamente, su quella del potenziale danneggiante, per il quale il costo del risarcimento dovrebbe esser tale da scoraggiare, ex ante, il compimento di condotte lesive (ed eventualmente a sanzionarne, ex post, l’avvenuta realizzazione).
Fino ad oggi, la ritenuta funzione esclusivamente compensativa della responsabilità civile aveva indotto i giudici italiani ad escludere che un provvedimento emesso in altro Stato, ove i danni puntivi fossero positivamente riconosciuti, potesse trovare esecuzione nella giurisdizione nazionale. Con quest’ultima pronuncia, la Suprema Corte ha, invece, riconosciuto i mutamenti cui l’istituto della responsabilità civile è andato incontro, anche nel nostro ordinamento, negli ultimi decenni. La sentenza si articola, infatti, attraverso il richiamo ad una serie di indici normativi che, già nella loro formulazione legislativa, o per come applicati nella prassi giurisprudenziale, paiono idonei a revocare in dubbio che la finalità riparatoria, seppur prevalente nel nostro ordinamento, sia davvero l’unica attribuibile al rimedio risarcitorio. Tale rilevante trasformazione dell’istituto, di tradizione romanistica, dell’illecito aquiliano è stata peraltro accompagnata, nell’ultimo torno d’anni, da un’intensa produzione della nostra letteratura giuridica, la quale, a più voci, ha ritenuto sempre più auspicabile una rivisitazione del ruolo attribuito al risarcimento del danno, proprio in vista di una maggiore prevenzione e comunque di un più efficace controllo di illeciti ed abusi.
La tappa di ieri segna un momento di estrema rilevanza in questo percorso: le Sezioni unite hanno esplicitamente escluso che la responsabilità civile italiana sia intrinsecamente incapace di aprirsi a scopi diversi da quello compensativo, ritenendo interne al sistema anche la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria. Se, ad oggi, tali principi sono stati affermati espressamente con riguardo al riconoscimento interno di provvedimenti resi da giudici stranieri, mi pare al tempo stesso che quest’ultimo arresto non possa che stimolare, per il legislatore così come per l’interprete, una rinnovata riflessione sulle traiettorie che, anche nel nostro ordinamento, potranno di qui in avanti esser assunte dalla responsabilità civile.